La crisi dell'oppio

di Silvia Testa, 20 Luglio 2022


I. INTRODUZIONE

Tuttavia la vita reale precedette l’esperienza accademica, e anziché leggere in che modo funzionava il recettore degli oppiacei, dovetti sperimentarne l’azione di persona. Una caduta da cavallo mi costrinse a restare immobile, supina in un letto di ospedale dove rimasi tutta l’estate, imbottita di Talwin, un derivato della morfina che mi veniva somministrato per alleviare il dolore causato dallo schiacciamento di una vertebra lombare.[1] 

Era l’estate del 1970, e la lodevole neolaureta Candace Pert ancora non sapeva che di lì a tre anni sarebbe stata proprio lei l’autrice della dimostrazione dell’esistenza del recettore degli oppioidi; lo sperimentare in prima persona l’effetto di uno dei suoi ligandi, però, fu sufficiente a nutrire la sua curiosità per quello strano meccanismo che conduce all’euforia. 

Anzi, la droga mi piaceva a tal punto che, verso la fine del soggiorno in ospedale, mi trastullai con l’idea di rubarne una piccola quantità da portare con me.[1]

D’altronde, la strada della legalità per ottenere anche solo qualche dose di morfina – uno dei farmaci a base oppioide, negli Stati Uniti del 1970, non sarebbe stata percorribile tanto facilmente. I medici erano piuttosto riluttanti nella prescrizione di quel farmaco in formulazioni che potessero essere assunte a casa, anche in condizioni di dolore cronico. 

Ma ora provate a proiettarvi in uno studio medico di fine anni ‘90. La scena a cui potreste assistere indurrebbe non poche perplessità: se, come pazienti afflitti da dolore cronico, richiedeste al medico qualcosa per attenuare le vostre sofferenze, la probabilità di vedere il medico in questione sillabare OxyContin è piuttosto elevata. 

E non è inverosimile immaginarlo intonare Get in the Swing with OxyContin: quel motivetto che gli ronza nella testa da quando è tornato dal simposio sulla gestione del dolore, tenutosi in quel resort in Florida, le cui spese erano state a carico della Purdue’s Pharma.                                                

Il salto temporale fornisce il pretesto per mettere in luce le ragioni che hanno portato a questo cambio di prospettiva.

II. OPPIACEI E OPPIOIDI

Il protagonista di questa storia è OxyContin, farmaco messo in commercio nel 1996 dalla sopracitata azienda farmaceutica, la Purdue’s Pharma. Da foglietto illustrativo si legge “ossicodone cloridrato in compresse ad uso prolungato”: una formulazione che prevede un rilascio graduale del principio attivo, il cui effetto permane così per 8-12 ore. Manca un dettaglio non irrilevante, per chi non l’avesse intuito: l’ossicodone è un oppioide, anzi, un oppiaceo.

Pure la prozia eremita sa che quando quel brutto male le prenderà i polmoni, ad attenderla impalata sulla soglia del ricovero ci sarà la morfina; ma che questa maledetta sia un oppiaceo tanto quanto l’eroina che ha ucciso il frontman del gruppo rock preferito di suo nipote, l’infermiera non gliel’ha mica detto. 

Morfina e altri suoi derivati, tra cui l’ossicodone, sono classificati come oppiacei – o, per gli amici generalisti, oppioidi – in quanto ligandi degli stessi tre tipi di recettori, storicamente noti come mu, delta, kappa, (oggi MOR, DOR, KOR), diffusi sulle membrane delle cellule nervose centrali e periferiche. 

III. LEGAMI E RECETTORI

Corpora non agunt nisi fixata (i corpi non agiscono, se non legati a qualcosa!) è quel che pensò Paul Erlich quando notò che le molecole di colorante dovevano legarsi al tessuto per fare il proprio mestiere. Chi non avrebbe intuito che questo potesse valere anche per le sostanze che navigano nel corpo umano? 

Tra ligando e recettore non è che ci sia proprio la passione che travolge due opposti che si attraggono, e si scoprono complementari in tutto: è più un amore per corrispondenza, in cui il ligando sa usare le parole giuste, o meglio, il corretto e ben disposto insieme di atomi.                                                                

Il recettore degli oppioidi, tendenzialmente, si accontenta di tre gruppi chimici: un azoto protonato, un anello aromatico, e un ossidrile, presenti sia nei nostri diabolici farmaci, sia nelle sostanze direttamente prodotte dal corpo, che si conoscono col nome di “molecole della felicità”: le endorfine. Dopodiché si possono effettuare variazioni sul tema, purché poi accada quel che deve accadere, ossia il recettore cambi la sua conformazione, prendendo contatto con la proteina G, deputata ad attivare una cascata di eventi intracellulari che condurranno all’effetto finale. In pratica, è come se l’oppioide avesse dato un colpetto alla prima delle tessere del domino, che urteranno ciascuna la successiva; l’ultima cadrà sull’interruttore del dolore: off. 

IV. LA CRISI DEL DOLORE

Forse la metafora ha messo un po’ a soqquadro le idee, quindi chiariamo meglio: com’è che sentiamo dolore?

Che sia una tazzina di caffè rovesciata sulla mano o il marciapiede che si è scontrato col ginocchio, il nocicettore (recettore del dolore) localizzato nei pressi dell’area stimolata propaga un impulso elettrico lungo il proprio assone, fino al midollo spinale, dove forma una sinapsi con un secondo neurone, che permette la risalita del segnale fino ai centri superiori: ahia.

Un sistema per modulare questa via in risalita esiste in realtà: la sostanza grigia periacqueduttale (PAG). D’altra parte, però, sentire dolore dovrebbe rappresentare un sistema di protezione dell’organismo umano: esistono persone s-fortunatamente nate senza recettori del dolore…  il risultato? Ustioni, ferite, qualche centimetro di lingua in meno perché da piccoli morderla non faceva male. Il corpo lo sa e, normalmente, i neuroni del PAG sono tenuti sotto controllo dall’azione del GABA, il neurotrasmettitore inibitorio del nostro cervello. Proprio qui agiscono gli oppioidi: mettono KO il GABA, permettendo alla PAG di silenziare il dolore come le pare e piace. 

Ma gli oppioidi agiscono anche ad un altro livello, più in basso, nel midollo spinale – dove lo stimolo del pungiglione di un’ape, appena arrivato dal nostro nocicettore, deve essere trasmesso al secondo neurone, per avvisare il cervello di quella fastidiosa puntura! Qui, il dolore viene silenziato dagli oppioidi addirittura prima che lo stimolo raggiunga un’altezza maggiore della nostra schiena. Ed ecco a voi l’effetto analgesico. 

V. PROMUOVERE LA CRISI

Pare che negli Stati Uniti il denaro speso in promozione di un farmaco sia almeno paragonabile alle cifre investite nelle fasi di ricerca e sviluppo dello stesso, se non superiore.

Farmaco (che, non a caso, in inglese è drug) può significare pericolo, paura, salvezza. La paura, che fino agli anni ‘90 frenava il medico nella compilazione delle ricette, era controbilanciata dal desiderio di togliere al paziente la sofferenza che lo opprimeva. 

Il successo delle attività di marketing lanciate per la vendita di OxyContin fu proprio dovuto al fatto che si riuscì a spostare l’ago della bilancia verso la compassione per il malato. Quella campagna, in teoria pubblicitaria, apparve nella veste di “War against pain” (guerra contro il dolore). 

Tra le strategie messe in atto in quest’ottica, ci furono conferenze organizzate in resort paradisiaci, che si presentarono come disinteressati momenti di sensibilizzazione sul tema della gestione del dolore: i medici partecipanti non venivano esplicitamente spinti a consigliare il nuovo prodotto.

Ma, d’altra parte, vennero istituiti dei fondi con cui finanziare da un lato i rappresentanti alla vendita, dall’altro dei coupon per accedere gratuitamente a una fornitura di farmaco. Manifesti, insegne, prodotti multimediali dal contenuto straziante contribuirono in modo altrettanto cospicuo al trionfo della campagna.

VI. DIPENDENZA E CRISI

Fare leva sulla compassione sarà anche stato un metodo efficace, ma non è sufficiente a giustificare il fenomeno dell’iper prescrizione che pervase il Papaverum Somniferum. Eppure, che fosse in grado di indurre dipendenza, era stato notato almeno fin dal 1700.

Ecco il nodo della questione. Addiction rare [3] è la conclusione tratta da un medico cimentatosi nella valutazione della dipendenza tra tutti i pazienti ospedalizzati che avevano ricevuto almeno una dose di una sostanza narcotica. È quanto riportò su una lettera che comparve sul New England Journal of Medicine. 

Fu uno spunto eccezionale per chi probabilmente stava in totale blocco dello scrittore di fronte all’etichetta di OxyContin, e si sentì così autorizzato a dichiarare che la sostanza era in grado di dare dipendenza in meno dell’1% dei casi. Ma che ci azzeccava? Non un granché, la correlazione è tanto insensata quanto lo sarebbe dire che ritrovarsi ogni giorno a guidare contromano non è pericoloso, basandosi sul fatto che nell’ultimo migliaio di incidenti frontali in Molise, è stato appurato un decesso soltanto.

7. PERDERE IL CONTROLLO

L’affermazione di quella pretestuosa lettera aveva una propria validità, sì, ma per il campione scelto e le condizioni applicate: una serie di pazienti che, per quanto malconci, più di qualche giorno in ospedale mediamente non lo trascorsero, e di dosi di farmaci oppioidi non poterono riceverne più di tante.

OxyContin era stato venduto fin dagli albori all’interno della cornice della lotta contro il dolore cronico, canceroso in primis; era scolpito nella sua stessa formulazione che sarebbe stato adibito ad un uso quotidiano. Ed è proprio l’assunzione ripetuta e costante nel tempo a permettere a una sostanza di manifestare la sua capacità di indurre assuefazione, e quindi dipendenza. 

Non è del tutto chiaro il meccanismo con cui gli oppioidi riescano a generare quel senso di gratificazione che giustifica la smania con cui, chi ne fa uso, ne va alla ricerca. Eppure non dovrebbe stupire che possa incrementare il rischio di commettere azioni anche poco ponderate: per esempio, assumere in modo non corretto un farmaco stupefacente a rilascio controllato. Se quella compressa non la deglutisci intera, ma la rompi, o la polverizzi col macinino della nonna, e poi la inali, o la mandi dritta in vena, in brevissimo tempo nel sangue circolerà la quantità di farmaco che avrebbe dovuto distribuirsi nell’arco di mezza giornata: un toccasana.

D’altronde se Paracelso affermò che è la dose a far sì che il farmaco non sia un veleno, non è mica perché gli pareva uno slogan pubblicitario accattivante. È evidente che anche la possibilità di overdose non è così remota, rispetto a quanto lo sarebbe stata in ospedale. 

VIII. RESPONSABILITÀ E CRISI

Quando, nel 2016, il CDC (The Centers for Disease Control and Prevention) emise le nuove linee guida per la gestione del dolore, ormai si era entrati in quella che viene riconosciuta come la terza ondata delle morti per overdose da oppioidi.

Il numero di prescrizioni era in calo già da qualche anno, ma in modo non sistematico: come unico risultato, le nuove linee guida, poco più stringenti, lasciarono un bacino di pazienti di sostanze stupefacenti privo della fornitura dei propri affidabili medici. 

Fu un vuoto colmato rapidamente, dai trafficanti del mercato illegale che erano solo in attesa di esporre in più bella vista la propria offerta, principalmente eroina, all’inizio. Dopodiché quella che veniva spacciata per eroina, era spesso stata contaminata con Fentanyl.

Stiamo parlando di un oppioide sintetico che, rispetto alla morfina, è 50-100 volte più potente: ha una struttura più lipofila (ossia legante i grassi), che meglio si adatta a diffondere attraverso la barriera emato-encefalica per raggiungere il cervello in troppo poco tempo.  

Il consumatore non sa di avere tra le mani una sostanza che darebbe gli effetti desiderati, e pure quelli indesiderati come nausea e depressione respiratoria, in quantità molto inferiori rispetto a quelle necessarie con l’eroina; e così raziona le provvigioni rischiando di incappare molto facilmente nell’overdose

E lo dimostra il dato delle 107 mila morti per overdose negli USA nel 2021, la maggior parte delle quali dovute proprio a Fentanyl. 

Una droga, ma nata come farmaco, può essere additata come vero responsabile, come nemico fatale da sconfiggere per uscire dalla crisi? 

Considerato che intorno alle case farmaceutiche sorgono come funghi teorie del complotto, forse attribuire ad esse le vere responsabilità potrebbe compiacere un pubblico più vasto. Ed effettivamente alla Purdue’s Pharma è stata fatta causa, e ora dovrà sborsare miliardi di dollari di risarcimento. E di certo non è la pecora nera della famiglia. 

Ma la FDA (U. S. Food and Drug Administration)? 

Dov’era l’ente responsabile della protezione della salute pubblica americana quando OxyContin vagava libero sul mercato? 

E com’è che, proprio il Paese paladino delle società del controllo, ha perso il controllo? 

– To be continued.


Bibliografia

[1] Pert, C.; Molecole di emozioni (1997), TEA libri (quinta edizione), 2, 35

[2] Jones J; The mysteries of opium reveal’d (1701)

[3] Addiction rare

Fonti

Graham L. Patrick, Chimica Farmaceutica (2015), Edises (terza edizione), 30

Goodman, Gilman, Brunton, Hilal-Dandan, Kollmann, Goodman & Gilman- Le basi farmacologiche della terapia (1941), Zanichelli (tredicesima edizione), capitoli 1-20.

Van Zee A.; The Promotion and Marketing of OxyContin: Commercial Triumph, Public Health Tragedy, American Journal of Public Health

Ayoo K., Mikhaeil J. S., Huang A., Wasowicz M.; The opioid crisis in North America: facts and future lessons for Europe

Centers for Disease Control and Prevention